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Parco Don Bosco: l’orgoglio che ferisce

  • Categoria dell'articolo:Bologna
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Come preannunciato nei giorni passati, questa mattina le motoseghe e le ruspe incaricate di abbattere decine di alberi si sono presentate al Parco Don Bosco accompagnate da decine di manganelli. Eppure, dopo ore di cariche e botte verso giovani e anziani, il parco è ancora l’arena del presidio che si oppone alla distruzione di quel fazzoletto di verde collettivo.

La cronaca dice che, nonostante l’abbattimento di alcuni alberi, per oggi ha vinto la determinazione di tante persone che hanno rinunciato alla propria quotidianità e hanno sfidato la violenza dei manganelli per difendere il parco. La politica, invece, dice che in quel parco è stato superato un confine che non avrebbe dovuto essere varcato: provare a far avanzare una visione di città sulla punta dei manganelli significa calpestare non solo le piante in fiore che oggi sono state abbattute, ma anche qualunque proposito di fare di Bologna una città in cui far germogliare processi collettivi all’altezza dell’era della crisi climatica.

Le ragioni che hanno spinto tante abitanti del quartiere a schierarsi contro il progetto di costruzione di una nuova scuola al Parco Don Bosco sono note. E, per altro, ragionevoli e ben argomentate, motivo per cui hanno trovato solidarietà e appoggio in tante reti sociali della città. Ma quel che ci consegna la giornata odierna è un qualcosa che va ben oltre la contrarietà o l’appoggio al progetto voluto dall’amministrazione comunale: è l’avanzare di una visione che esclude e criminalizza, picchia e manganella, affermando di portare la transizione ecologica.

Difendere un parco o un quartiere, impegnarsi in un percorso sociale, proporre punti di vista e soluzioni alternative, non è un passatempo. Coloro che da mesi si riuniscono al parco Don Bosco – come avviene in tanti altri luoghi e realtà sociali – sacrificano giorni di ferie o di studio, rinunciano al proprio tempo libero, impegnano la propria quotidianità. E un presidio tra gli alberi del parco che ha attraversato l’inverno ed è giunto a primavera non sarebbe possibile senza la complicità, il sostegno e l’attraversamento di chi abita il quartiere, semplicemente perché le energie per farlo vivere non sarebbero sufficienti senza un’ampia rete di supporto di abitanti che ne condividono scopi e finalità.

Decidere di provare a risolvere l’impasse attraverso scudi e manganelli non dimostra la determinazione di un’amministrazione a promuovere percorsi di transizione ecologica, che dovrebbero invece avere radici solide nell’inclusione e nella condivisione, ma l’arroganza di chi ha trasformato ogni progetto approvato in Giunta in una questione d’orgoglio personale.

La mobilitazione di questi mesi, infatti, evidenzia che un’ampia parte del quartiere è contraria a quel progetto. Questa è una realtà, un dato di fatto, una dimensione ecologica con cui fare i conti, così come si deve fare i conti con il riscaldamento globale, l’inquinamento, le ondate di calore. Fare i conti, però, non significa necessariamente schierare reparti in assetto da combattimento, ma anche riconsiderare, riprogettare, ripensare: agire la forza dei manganelli invece che quella della ragione è una scelta, non un imprevisto.

C’è una domanda che a Palazzo d’Accursio avrebbero dovuto porsi in queste settimane di dibattito pubblico sulle scuole Besta: è possibile che avere una scuola confortevole per chi la vive, ed efficiente dal punto di vista energetico, debba passare attraverso le manganellate sferrate contro quante affermano che un parco è linfa vitale per quella stessa scuola e per il quartiere? No, non è possibile. Perché un’area boscata è, da qualunque parte la si voglia guardare, linfa vitale, e d’altra parte è evidente che la capacità di promuovere scelte infrastrutturali all’altezza della crisi climatica non passa per il collo di bottiglia di un edificio, sul quale possono essere studiate soluzioni capaci di considerare i tanti bisogni in gioco, incluso quello di preservare interamente il parco che lo circonda.  

E allora, c’è una sola ragione che può impedire all’amministrazione di tornare con ragionevolezza sui propri passi, di riconoscere che, non essendo quel progetto condiviso, ci sono delle ottime ragioni per non considerarlo utile per costruire la Bologna del 2030: è l’orgoglio di chi amministra. Che oggi ha ferito un parco, e una decina di giovani e anziani. E che, nel suo esprimersi, ha superato quel labile confine che lo ha trasformato in arroganza, dando alle motoseghe il compito di confrontarsi con questa ricca e preziosa biodiversità.