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Passante delle mie brame: chi è il più cementificatore del reame?

  • Categoria dell'articolo:Bologna
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In queste settimane, continua la querelle sull’allargamento dell’autostrada e della tangenziale che attraversano Bologna. Ballano miliardi di euro, che dovrebbero essere destinati a cementificare e sigillare ulteriore suolo in un territorio che ha subito più volte le conseguenze drammatiche dell’alluvione. Perché, da qualunque parte la si guardi, la soluzione, alla fine, è sempre la stessa: nuovo cemento e nuovo asfalto perché il numero di mezzi pesanti e automobili che attraversano Bologna possa continuare a crescere. Per usare un acronimo, lo chiamano PIL, quel numeretto magico che – dicono – basta che cresca, e abbiamo tutte una vita bella.

Eppure, lo stallo – che dura ormai da tre anni – potrebbe essere usato per tutto un altro tipo di considerazioni. Perché in questi tre anni abbiamo toccato con mano la crisi climatica: vite perse, territori sconvolti, miliardi di euro di danni. Il riscaldamento climatico è il frutto di un sistema economico che ha guardato alla natura e ai territori come a un asset da monetizzare. Poco importa se quelle stesse opere rendono più precarie le nostre vite, mettono a rischio la salute di migliaia di persone, aggravano il consumo di suolo, e sono le ragioni per le quali a ogni pioggia dobbiamo temere il peggio. Nella roulette del PIL, si gioca con la vita dei cittadini.

Tra l’altro, in tutto questo tempo passato ad aspettare, si sarebbe potuta fare la Valutazione di Impatto Sanitario, che i fautori dell’opera non vogliono vedere e leggere, e non ci hanno ancora spiegato il perché. Oggi sapremmo se allargare un’autostrada ha delle conseguenze sulla salute di chi vi abita vicino, e, soprattutto, quali. Invece, quei cittadini restano di serie B, che si faccia o meno l’intervento sul ponte di San Donato (diventato il nodo intorno al quale rivendicare l’allargamento dell’autostrada), perché gli impatti negativi sulla loro salute continuano a essere considerati il giusto prezzo da pagare per far correre i tir da un polo logistico all’altro.

Nel frattempo, il cantiere zero è stato aperto, dei terreni sono stati sbancati, e tanti alberi già abbattuti. Come mai – e autorizzati da chi – questi lavori siano stati realizzati, quando l’opera complessiva non è ancora approvata e finanziata, resta un mistero.  Ma tant’è, perché the show must go on, e la sceneggiatura non può essere riscritta: ruspe, asfalto e cemento restano gli attori protagonisti di un film già visto.

La pandemia, la siccità, l’esperienza catastrofica delle alluvioni, ci dicono che dobbiamo reimmaginare completamente il nostro presente, per costruire altri futuri. Allargare un’autostrada – che sia in superficie o nei tunnel – è un’idea novecentesca che condanna Bologna a restare una servitù di passaggio, subendo il traffico di centinaia di migliaia di mezzi a motore. Quell’autostrada – e qualunque progetto di ampliamento – non è, e non sarà mai, la soluzione, ma il sintomo del problema, che è il modello economico al quale vengono sacrificate vite, territori, biodiversità, e, appunto, i nostri futuri. In questo senso, il collo di bottiglia infrastrutturale bolognese rappresenta un’opportunità unica: quella di mettere in discussione decenni di politiche dei trasporti che hanno favorito il trasporto su gomma. Invece, l’immaginazione che troviamo nelle dichiarazioni di queste settimane non va oltre l’essere più realisti del re: specchio, servo delle mie brame, chi è il più cementificatore del reame?